Ultimamente si parla molto di cyberbullismo a causa del tragico suicidio di una quattordicenne di Padova e questo mi ha fatto riflettere portandomi a chiedermi perché in Italia deve sempre accadere una tragedia perché si parli di un problema che va avanti ormai da anni. Mi viene anche da domandarmi quanto si parlerà ancora di questo problema o meglio quand’é che arriverà una notizia abbastanza “appetitosa” per i media da far passare questa in secondo piano.
Perché diciamolo: il bullismo esiste ormai da ben prima dell’avvento di internet eppure chissà perché non faceva molta notizia sui giornali.
Insomma fino ad oggi tutti sapevano, ma nessuno sembrava vedere. “Che vuoi che siano delle semplici prese in giro o degli insulti? Che male possono fare?”
Beh, sappiate che le parole, allo stesso livello della violenza fisica, possono fare molto male siano esse scritte o pronunciate a voce. Peccato però che non sempre ci ricordiamo la vera forza e l’influenza delle parole (nel bene o nel male) e tendiamo a sottovalutare certi fatti, addirittura a giustificarli o a far finta di niente semplicemente per non essere coinvolti e non veder distrutto il nostro equilibrio.
Ci tengo molto a pubblicare questo racconto perché spesso ci si dimentica che a volte, quando la violenza si mescola alle parole, può bastare proprio una parola ad aiutare, sia essa di conforto o di denuncia.
“Mi chiamo Sara, ho vent’anni e sono una vigliacca. Non sono mai stata bella né particolarmente simpatica o popolare anzi sono tipo piuttosto anonimo e ordinario. Per questo ho sempre cercato di mantenere un basso profilo, di pensare ai fatti miei senza farmi coinvolgere troppo.
Non volevo diventare una vittima e questo mi ha portato a commettere una colpa irreparabile. Perché proprio il tenere la testa bassa mi ha permesso spesso di vedere e osservare con attenzione ciò che accadeva attorno a me eppure, pur vedendo, io non ho fatto mai nulla.
Il pomeriggio in cui mi resi conto di ciò che avevo fatto ero da sola a casa. Me ne stavo sdraiata sul divano, leggendo tranquillamente un libro in inglese di Dan Brown. Ero così immersa nella lettura da avere quasi l’impressione di essere immersa in una campana in grado di tenere lontano ogni rumore proveniente dalla strada. D’un tratto però cominciai ad avvertire un forte pizzicore sotto al braccio. All’inizio provai a ignorarlo, ma questo si fece così intenso che fui costretta ad alzarmi e ad andare in camera per controllare davanti allo specchio il perché di quell’insopportabile fastidio. Mi tolsi la maglia, temendo una qualche irritazione, dovuta magari al cloro della piscina dove ero stata poche ore prima, ma mi ritrovai a fissare immobile un graffio lungo quasi quanto il mio stesso braccio. – Ma che cazzo…?
Sconcertata, controllai che nella maglia non ci fossero spilli o cuciture che avessero potuto farmi male, ma non trovando niente mi rivestii decidendo di non dare più di tanto peso alla cosa.
Feci appena in tempo ad uscire dalla stanza che avvertii un bruciore ancora più intenso provenire dalla mano sinistra. Mi guardai, sgranando gli occhi davanti all’escoriazione che spiccava, rossa di sangue, poco al di sotto del pollice.
Dopo un attimo di esitazione corsi in bagno e aprii il rubinetto del lavandino. Tremando, infilai la mano sotto il getto d’acqua calda.
Solo in quel momento mi accorsi di avere un freddo terribile, così intenso che me lo sentii penetrare fin nelle ossa.
Ritornai in salotto, tamponandomi la ferita alla mano con un fazzoletto e mi rimisi sul divano, rannicchiandomi sotto la mia copertina blu preferita.
All’improvviso però un fruscio mi fece sussultare.
– Chi c’è? – urlai osservando con attenzione ogni angolo della sala immersa in un inquietante silenzio. Un brivido mi attraversò tutto il corpo. Sentivo addosso uno sguardo penetrante, lo sentivo trafiggermi la carne facendomi rimestare le interiora.
Fu allora che il bruciore ricomparve, diffondendosi intenso e straziante per tutte le braccia. Sgranai gli occhi, urlando di paura nel vedere la maglia tingersi di sangue.
Aprii e chiusi la bocca, cercando di farfugliare qualcosa ma non sentivo altro che dolore e paura.
– Che… Che succede? – piansi. – Che mi sta succedendo?
Fu allora che la vidi: riflessa nel vetro di un quadro c’era una ragazza dal volto violaceo, gli occhi iniettati di sangue carichi di una rabbia paralizzante.
Rimasi immobile, incapace di smettere di fissare quel volto carico di rabbia e di odio, un odio così viscerale da togliermi il respiro.
Ero così terrorizzata che mi ci vollero diversi secondi per rendermi conto che io conoscevo quella ragazza.
Il suo volto mi era tragicamente familiare e non solo perché pochi giorni prima avevo letto di lei su internet.
– Amanda?
“Ti ricordi di me, Sara?”
La sua voce vibrò nell’aria come trasportata da un vento gelido.
Ricordavo di lei, la timida Amanda, quella che al liceo tutti prendevano di mira, la vittima preferita degli scherzi di tutti, degli insulti e delle angherie dei più grandi.
Una ragazza gracile e timida che preferivo evitare per non farmi coinvolgere troppo. Non volevo entrare nel mirino di quegli idioti che ogni giorno le facevano passare le pene dell’infermo.
Fui però triste nel leggere su internet del suo suicidio, di come avesse ceduto a quegli atti di bullismo che hanno lasciato il segno anche nel successivo anno universitario.
– Tu… Tu sei… Sei…
Lentamente, il volto di Amanda si protese uscendo dal vetro. Le sue mani afferrarono la cornice e lei si spinse fuori uscendo dalla sua gabbia di vetro. Il suo corpo era livido e ricoperto da profondi tagli e ferite.
“Morta? Sì…. E la colpa é anche tua….”
La sua mano si protese in avanti, indicandomi con dito accusatore.
Scossi il capo, indietreggiando lentamente.
– Io non ho fatto niente! Niente!
Con uno scatto d’ira, Amanda contrasse le mani e subito un dolore acuto mi attraversò il petto. Deglutii sentendo il sangue sgorgare sotto la maglia.
“Esatto! Non hai fatto niente! Sei rimasta a guardare, facendo finta di nulla mentre gli altri si impegnavano a convincermi che non ero nemmeno degna di vivere!”
Sentii le lacrime rigarmi le guance tanto per il dolore quanto per la paura e l’ingiustizia per quelle accuse insensate.
– Io… Non é stata colpa mia…
Un’altra contrazione della mano e di nuovo sentii la mia carne aprirsi.
“Credi davvero che tu sia meno colpevole? Pensi davvero che ogni volta che mi hai voltato le spalle tu non mi abbia fatto male?”
Il suo volto si fece terribilmente triste.
“Avresti potuto fare qualcosa. Tutte le volte che cercavo uno sguardo amico, ogni volta che li vedevi mentre mi umiliavano… Avresti potuto fermarlo.”
– Ti giuro che non sapevo… Non… Non vedevo quello che ti facevano…
“Bugiarda!” urlò col volto contratto dall’odio “Io so che tu hai visto… Lo so!”
Scossi la testa, indietreggiando fino a inciampare contro il tavolino del salotto. In un attimo mi ritrovai a terra dolorante.
Non ebbi il tempo di riprendermi che Amanda iniziò ad avvicinarsi, le mani strette a pugno per la rabbia. A ogni suo passo sentivo delle nuove ferite aprirsi sul mio corpo.
Urlai sentendo il dolore farsi più intenso a ogni secondo sebbene non fosse quello a farmi stare più male.
A ogni nuovo graffio infatti potevo sentire la sofferenza di Amanda, il suo dolore e la sua paura, la rabbia e il vuoto che negli anni si erano fatti largo dentro di lei.
Nella mente vidi in un attimo tutti gli anni in cui era stata maltrattata e umiliata, portata fino allo stremo e oltre.
Poi sentii la tristezza dell’abbandono: quello dei suoi genitori, che sminuivano di continuo ciò che raccontava loro, quello da parte degli insegnanti che fingevano di preoccuparsi per lei senza però fare mai davvero qualcosa. Quello dei suoi amici che sapevano e vedevano, ma che preferivano far finta di niente per non essere coinvolti.
Certo c’era chi davvero non aveva idea di quello che le stava accadendo, ma ce n’erano anche altri che non erano meno colpevoli dei vermi che l’avevano spinta al suicidio. Altri che avrebbero potuto aiutarla anche solo con il loro sostegno.
E io? Ero tra quelli? Ero davvero colpevole?
Le lacrime mi scesero ancora più abbondanti. In quel momento una sola frase mi risuonava nella mente: sì, lo ero.
Guardai Amanda e i miei occhi caddero sui segni rossi che le solcavano i suoi posi.
– Mi dispiace… – riuscii solo a sussurrare.
Alla fine venni travolta da un dolore immane mentre gli stessi squarci si aprivano anche sui miei polsi.
Mi lasciai andare mentre il sangue si spandeva lentamente sotto il mio corpo.
Amanda si chinò su di me e mi accarezzò la fronte. Un brivido mi attraversò il corpo a quel contatto delicato.
“Io ti perdono.” mi sussurrò.
Chiusi gli occhi mentre un dolce tepore s’impadroniva di ogni fibra del mio essere, seguito da un piacevole formicolio.
Quando riaprii gli occhi mi ritrovai sul divano, senza più una sola ferita. Possibile che avessi solo sognato tutto?
Mi rimisi in piedi sentendomi stranamente fresca e riposata. Era come se mi fossi in qualche modo liberata di un peso.
Dimenticai quell’orribile incubo finché, quella sera, non lessi un articolo su un grosso quotidiano on line: alcuni ragazzi del nostro vecchio liceo erano stati brutalmente uccisi.
Erano tutti morti dissanguati, trovati con i polsi tagliati e il corpo ricoperto di graffi e profonde ferite.
Deglutii e abbassai lo sguardo verso la mia mano sinistra dove spiccava ancora il segno di una brutta escoriazione. Non era stato un sogno. Era tutto vero.
Ma perché Amanda mi aveva risparmiata? Perché aveva ucciso tutti gli altri e salvato solo me?
All’improvviso mi tornò in mente un particolare importante. Cercai subito su internet i dettagli della sua morte e quando trovai un articolo mi bloccai.
Si era tagliata le vene… si era tagliata le vene, ma non si diceva niente su altre eventuali ferite che si era inferta.
Chiusi gli occhi e cercai di rievocare le sensazioni provate in quei momenti. Una lacrima mi bagnò il viso quando capii.
Quelle ferite non erano del suo corpo. Da quelle iniziali, che pur bruciando non facevano poi così male, a quelle che col tempo erano diventate più profonde e dolorose, quelle ferite erano state inferte dentro di lei da tutti gli insulti e le umiliazioni che aveva subito.
Io avevo provato in pochi attimi ciò che lei aveva sopportato per anni e capito la mia colpa prima che il dolore che l’aveva portata alla morte uccidesse anche me.
Amanda non voleva uccidermi, non voleva uccidere nessuno.
Voleva solo che capissimo e vedessimo ciò che per anni avevamo fatto finta di non vedere.”